[Editoriale] Intersezionalità: una buzzword pro e contro l’identità LGBT

Dal 1989 in poi, anno in cui la studiosa Kimberlé Crenshaw ne fondò la teoria, il concetto di intersezionalità ha fatto lentamente ingresso nelle scienze sociali. Basti guardare al florilegio di articoli accademici degli ultimi due decenni, soprattutto di matrice americana, per accorgersi della frequenza con cui si scrive e si dibatte sul pensiero intersezionale, considerato ormai uno strumento chiave nella comprensione dei fenomeni di diseguaglianza sociale legati alla discriminazione multipla. Non sorprende, d’altronde, che la sensibilità per il contrasto delle discriminazioni multiple si sia sviluppata nel contesto sociale e giuridico statunitense quando emerse chiaramente che né il diritto, né i movimenti per i diritti civili riuscivano a tener conto delle esperienze di discriminazione e violenza vissute dalle donne (nere) o da una parte delle persone omosessuali (lesbiche e trans). D’altra parte i movimenti per i diritti civili delle donne di allora davano voce principalmente alle istanze delle donne bianche (istruite, di classe media, eterosessuali…), mentre i movimenti per i diritti delle persone omosessuali erano, a quei tempi, sovrarappresentati da molti maschi gay (bianchi e di classe media).

 

L’intersezionalità non rappresenta solo un concetto euristico che ci aiuta a capire quanto la gamma delle nostre identità influenzi l’accesso ai diritti e alle opportunità, ma è anche un formidabile strumento per lo sviluppo di analisi scientifiche e azioni politiche che mirano a combattere le discriminazioni multiple che ancora oggi restano così implacabilmente radicate nella società disumana dei giorni nostri. Non si può infatti dubitare del fatto che l’appello al “diverso” sia ancora una pratica antropologica annoverata nei comportamenti sociali di oggi. E che questo appello all’odio di un altro essere umano si costituisca frequentemente sulla base di una combinazione di “anormali attributi” (il colore della pelle, il genere, l’orientamento sessuale, persino il tifo per una squadra di calcio…) che possiede un essere umano. Ecco quindi che una persona omosessuale si deve misurare con l’omofobia. Una persona nera con il razzismo. Una donna con la misoginìa. Ma una donna nera omosessuale avrà a che fare con l’omofobia, il razzismo e la misoginìa, anche allo stesso tempo. E talvolta si darà il caso che ella dovrà affrontare il razzismo all’interno della comunità LGBT e l’omofobia nella comunità nera.

In sintesi, l’intersezionalità è una sorta di triangolo delle Bermuda che risucchia quella parte degli esseri umani che stratificano in una sola persona più identità, biologiche e/o culturali.

Il dibattito sulla intersezionalità richiede di complicare la definizione di “diversità” e propone una visione della differenza come relazione basata simultaneamente su punti di somiglianza e punti di differenziazione. L’intersezionalità mette in dubbio la possibilità di parlare di “cultura” senza parlare anche di “religione” o di “classe” poiché vede la differenza come qualcosa che agisce contemporaneamente su tutti gli attributi che descrivono una persona, per cui non è possibile parlare di una dimensione della diversità senza chiamare in causa anche le altre. Si possono prendere “intersezionalmente” in considerazione i comportamenti di una o più persone, vedere come questi comportamenti interagiscono dal punto di vista del genere, razza, cultura, religione… e osservare il loro cambiamento al variare dei contesti storici, geografici e sociali.  Helma Lutz e Norbert Wenning (2001) arrivano a elencare ben quattordici possibili categorie fra le quali “scegliere” quelle che di volta in volta sono più rilevanti: genere, sessualità, razza o colore della pelle, etnicità, appartenenza nazionale, classe, cultura, religione, abilità fisica, età, sedentarietà, povertà, proprietà, collocazione geografica e status rispetto alla propria tradizione.

Dal momento che questo discorso cade nella X Giornata internazionale contro l’omotransfobia e a pochi giorni dall’approvazione della legge italiana sulle unioni civili la nostra chiosa finale è sulle “famiglie arcobaleno” che rappresentano, almeno in Italia, il caso più recente di soggetto da stigma intersezionale.  Nuclei familiari differenti e plurali che si compongono e ricompongono a seconda delle geografie e delle culture, in un gioco affettivo-relazionale basato non più e non necessariamente su lignaggi biologico-riproduttivi ma anche su legami e relazioni romantico-affettive. La famiglia formata da genitori dello stesso sesso è una “famiglia intersezionale” in quanto occupa una collocazione non del tutto definita nella tradizionale configurazione dei modelli familiari; innanzitutto a causa dalla dimensione non generativa della coppia. Non possedendo capacità riproduttiva, in questa tipologia familiare risulta dissociata – de facto – la relazione tra sessualità e funzione procreativa, almeno nella configurazione più classica della forma familiare (una coppia con almeno un figlio). Qui le differenze di identità di genere e i ruoli genitoriali complicano la performatività sessuale à la Butler (2004), fondendosi e confondendosi tra fluidità e duttilità di una forma familiare non normativa. Proprio l’assunzione della “normalità” amorosa di una famiglia/con genitori omosessuali/e con figli (maschi, femmine, neri, bianchi, omo, etero…) inquieta. Oggi, come un tempo inquietava il deviante maschio omosessuale. In termini di sintesi è proprio questo concentrato di attributi delle famiglie omogenitoriali a porre interrogativi sulla loro capacità assumere una forma familiare. Quasi che la sovrapposizione e l’incrocio di generi, sessualità e temperamenti soggettivi delle famiglie omogenitoriali (in altre parole quelle delle differenze) siano meno rassicuranti delle famiglie standard (in altre parole quelle delle somiglianze).

Ecco allora che la teoria della intersezionalità serve a mostrare che su queste convenzioni e rappresentazioni dell’altro, troppo spesso eteronormative e giuridicamente normate, si ergono pregiudizi sociali e ragionamenti perniciosi. Il tentativo di questa teoria è di superare una concezione a compartimenti stagni della identità e della esperienza di discriminazione, andando oltre l’intersezione e verso la strada di una prospettiva sempre più allargata e complessa delle identità.