Speciale Cirinnà. Il tempo di decisioni equilibrate, ma non più rinviabili

 No al lievito madre!

Il pane ha bisogno di un Padre e di una Madre.

E poi “lievito” è maschile,

non potrà mai essere madre

(dal web)

 

La sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale italiana, nel respingere questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge sullo stato civile che vietano pubblicazioni di matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, invitò tuttavia il legislatore nazionale ad apprestare una legge che, pur non riconducibile all’art. 29 della Costituzione, che fonda il riconoscimento dell’istituto matrimoniale, trova tuttavia base nell’art. 2, che “riconosce i diritti inviolabili della persona sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità”.

Incominciò così una vicenda fatta di omissioni legislative e di capziose interpretazioni amministrative di norme esistenti (ad esempio a proposito della trascrizione in Italia degli atti di matrimonio tra soggetti omosessuali validamente celebrati all’estero, o di registrazione da noi delle generalità anagrafiche dei genitori di figli nati da tali unioni), di ritardi, di rinvii consapevoli e di colpi di scena, o, per meglio dire, di supplenze giurisprudenziali.

Tra le manifestazioni di queste ultime si ricorda la sentenza  170/ 2014 della Corte Costituzionale. Essa  fu resa a proposito del celebre caso di una persona di sesso maschile, sposata e divenuta di sesso femminile in costanza di un matrimonio che entrambi i coniugi chiedevano comunque si mantenesse. Nella circostanza si è sancita l’illegittimità, per contrasto con l’art. 2 Cost., degli artt. 2 e 4 della legge  164/1982 (nel testo peraltro già abrogato dall’ art. 36  del d.lgs. n. 150/2011), nella parte in cui essa non contemplava che “la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio” consentisse tuttavia, a richiesta di entrambi gli interessati, la prosecuzione di “un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore”.

Infine la Corte europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia (nel caso Oliari e altri c. Italia; si veda in termini, ad esempio, I. Anro,La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il mancato riconoscimento delle unioni civili, in Eurojus.it, 24. 7. 2015), per non essersi dotata di un istituto  che – pur diverso dal matrimonio – riconosca i diritti delle persone non sposate (di orientamento omosessuale, ma anche eterosessuale, se in entrambi i casi uniti in coppie finora di fatto) a che ne venga rispettata la vita privata e familiare, riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione tutelata da quella Corte.

Questi i “paletti” – come si usa oggi dire – che vanno tenuti fermi nella questione che torna ad accendere gli animi in questi giorni e da siffatta situazione l’accelerazione circa l’esame del cosiddetto “disegno di legge Cirinnà” (n. 14/2013, Senato della Repubblica, XVII Legislatura), che reca Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili.

Si replica da quanti sono contrarî che l’istituto che si va ad introdurre “rassomiglia troppo al matrimonio”, per i rinvii previsti dai suoi articoli 3 e 4 all’assetto normativo di questo.

Le disposizioni di riferimento riguardano rispettivamente i diritti personali (art. 3) quelli di carattere ereditario (art.4).

L’idea laica  - altro è poi il valutare il matrimonio come sacramento religioso, in una prospettiva di fede -  è  che il fenomeno “famiglia” identifichi in primo luogo un fenomeno sociale spontaneo, vale a dire una comunità di vita in cui opera costantemente la capacità di trasmettere costantemente affettività e condividere responsabilità vicendevole e solidaristica tra i suoi membri adulti e verso i minori che in essa fossero presenti,

Solo successivamente l’ordinamento giuridico generale (l’aggettivo segnala che la famiglia è una organizzazione con proprio carattere di giuridicità pre-statuale e in tale senso “naturale”) riconosce e garantisce diritti a quanti ne fanno parte, oltreché quelli della formazione sociale in quanto tale (in ipotesi assicurando solo a taluno suo tipo – tra le diverse forme che ne sono socialmente rilevabili – l’accesso al matrimonio, ma certo non potendo penalizzare rispetto alla titolarità di godimento dei diritti fondamentali chi non voglia o non possa contrarlo).

Poste dunque tali premesse, gli interessi che in tali articoli sono contemplati sembrano il minimo indispensabile per accompagnarne un riconoscimento non discriminatorio.

L’art. 5 del ddl riguarda la cosiddetta (con termine inglese) stepchild adoption, o “adozione del figlio del genitore biologico” da parte del compagno o della compagna di questi.

Si tratta di situazioni già esistenti e anche legittimate da una sia pure non copiosa giurisprudenza interna (se ne veda un cenno in S. Prisco – M. Monaco, L’Italia, il diritto e le unioni affettive non tradizionali. Un panorma di problemi e di possibili soluzioni, in La musica della vita. Quaderno di bioetica e biopolitica di un giurista, Napoli, 2015, spec. 144 ss.).

In proposito, va valutata attentamente per la corretta decisione e da parte del giudice terzo, col supporto di esperti, il contesto di “approdo” (effettiva integrazione del bambino, il cui interesse è assolutamente preminente, nella vita domestica; grado di apertura culturale e di predisposizione o meno all’accoglienza dell’ambiente amicale, scolastico, comunitario frequentato dalle persone interessate).

Soggetti inadatti per la intensa litigiosità, o perché dediti ad alcool o a droghe, ovvero anaffettivi,  vanno ad esempio esclusi a prescindere dal sesso e dall’orientamento di genere, sebbene l’affidamento del minore ad un istituto debba comunque essere solo l’extrema (e deprecabile) ratio.

Si obietta che tale riconoscimento consentirebbe, attraverso la pratica di “fabbricarsi” un figlio all’estero (laddove questo obiettivo è legale), di eludere il divieto di essa comminato dalla legge italiana e da altre  (art. 12, comma VI, l. 40/2014, che dispone appunto il divieto di maternità surrogata); si veda anche Utero in affitto, il no della Cassazione alla maternità surrogata, in Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluver (nota redazionale, con richiami dottrinali e di giurisprudenza, a Cassazione Civile, sez. I, 11/11/2014, n. 24001), così aprendo la strada allo sfruttamento di donne povere, o comunque legittimando l’edonismo procreativo e la odiosa “mercantilizzazione della gravidanza” per conto terzi.

Il rischio è reale. Attese però le differenze esistenti sul punto fra ordinamenti giuridici (anche di Paesi coi quali abbiamo vincoli formali derivanti dalla compresenza in organismi internazionali e sovrannazionali), va semmai promossa un’azione di ridiscussione degli effetti patologici e perciò indesiderati di quanto legalmente già oggi è in diversi luoghi del pianeta possibile ottenere, distinguendosi tra azioni speculative, da perseguire e pratiche oblative (se, ad esempio, si prestino per ragioni affettive ad una gravidanza surrogata la madre o la sorella di una donna impossibilitata a condurre a termine una gestazione pur regolarmente iniziata).

Va peraltro precisato che l’art. 44 della legge 184/83, nel testo modificato fin dal 2001, prevede la cosiddetta “adozione in casi particolari”, che rende possibile l’adozione anche a un soggetto singolo “quando si tratta persone unite al minore da parentela fino al sesto grado, ovvero da un rapporto stabile e duraturo quando il minore sia orfano di padre e di madre”.

Anche un soggetto omosessuale, che sia stato partner abituale del genitore defunto, potrebbe – in forza di tale  disposizione – adottare dunque un bambino, sempreché sia “persona unita al minore da rapporto stabile e duraturo”, soluzione certo preferibile alla dichiarazione dello stato di adottabilità, che apre la porta all’affidamento ad un istituto, o a un parente di sangue che non abbia però rapporti affettivi profondi e consolidati col minore.

Va in conclusione rimpianta la perdita di un’occasione di riflessione matura, diversa da quella di tono fortemente ideologizzato e da guerra di contrapposte religioni che sta invece dipanandosi su una materia oggettivamente complessa e “sensibile”, che prendesse atto da un lato dell’esistenza di una tradizione culturale plurisecolare in ordine ai rapporti di coppia e la filiazione, ma al tempo stesso del già intervenuto pluralizzarsi della immagine della famiglia e del mutamento della realtà antropologica nel concreto vissuto sociale delle società occidentali, cioè dell’esistenza e della diffusione delle cosiddette “famiglie arcobaleno”[si veda per il nostro Paese F. Corbisiero (ed.), Over the Rainbow city. Toward a newLGBT citizenship in Italy, ove si legga in particolare di S. Prisco, F. Abbondante, M. Monaco, The juridical situation of homosexuals. The italian national satnce and a compartieve viewpoint, Milano, 2015, 105 ss., che quanto al primo e alla terza degli autori sinterizza in lingua inglese – trad. di A. Bedford -  il loro contributo precedentemente richiamato, integrato dalla seconda autrice quanto al piano giuscomparativo].

Un pragmatismo laico non corrivo, che avesse cercato le vie dell’overlapping consensus tra posizioni culturali e sentimenti individuali e collettivi in partenza tanto differenti, avrebbe permesso l’approdo ad una discussione meno emotiva ed eccitata, contrassegno forse inevitabile di un dibattito in simile ambito, ma che attenta comunque alla lucidità del pensiero e alla bontà delle conseguenti, necessarie decisioni normative.