Diritti Umani 2015. La dimensione di genere nel rapporto di Amnesty International

Parliamo di crisi dei diritti umani, per identificare quel fenomeno pervasivo che sta dilagando in molte parti del mondo. Sono trascorsi circa settant’anni da quando l’Assemblea generale delle Nazione Unite proclamava la Dichiarazione universale dei diritti umani (DUDU). Un evento di straordinaria importanza e rilevanza internazionale destinato a distinguersi per la sua incidenza sul panorama mondiale in materia di uguaglianza e non discriminazione. Il suo ampio raggio d’azione avrebbe dovuto abbattere per sempre le barriere del dissenso e di qualunque forma di discriminazione siano esse derivanti da forme di razzismo, sessismo, specismo, xenofobia e omotransfobia. 

Non era mai accaduto, prima di allora, che venisse prodotto un documento che riguardava tutte le persone del mondo senza alcuna distinzione.

Per la prima volta l’Assemblea generale sanciva: «la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione». Questo è quanto si stabiliva nella Dichiarazione universale dei diritti umani nel 10 dicembre 1948. Purtroppo ancora oggi i principi contenuti nella DUDU non vengono rispettati. Parliamo di “impunità e non accertamento delle responsabilità” nella misura in cui, in molte aree del globo, non vengono applicate misure immediate e restrittive per porre fine ai continui abusi, aggressioni, minacce, intimidazioni, violenze e vessazioni commessi ripetutamente sia dalle truppe governative sia dalle forze non statali impiegate nei conflitti armati sui territori di pertinenza.

In molti paesi persiste una forma di incapacità cronica nello stabilire i responsabili di continue torture e maltrattamenti che stanno tinteggiando di rosso le strade del mondo. Sono ancora troppe le vittime di carneficine ingiustificate e la radicata incapacità di garantire alla giustizia i colpevoli è fonte di rabbia e malcontento generalizzato. Amnesty International è un’organizzazione non governativa indipendente, un movimento globale, con un esteso network di sette milioni di sostenitori stanziati in più di 150 paesi e territori che, ogni giorno, antepongono alla propria vita la difesa dei diritti umani riconoscendosi nei principi della solidarietà internazionale. Fiduciosi nell’idea che qualcosa possa cambiare e smuovere le coscienze di chi è ai vertici di aree fortemente influenzate da regimi e politiche repressive, Amnesty International cerca ogni giorno di imporsi promuovendo in modo imparziale ed indipendente il rispetto dei diritti umani, tentando di prevenirne specifiche violazioni. Il rapporto 2015-2016 di Amnesty International[1] documenta la situazione dei diritti umani in 160 paesi e territori durante il 2015 e, considerando lo schema di divisione geografica adottato dalla Statistic Division delle Nazioni Unite, commenta l’andamento delle macroregioni Africa Subsahariana, Americhe, Asia e Pacifico, Europa e Asia Centrale, Medio Oriente e Africa del Nord in base alle aree maggiormente a rischio che destano più preoccupazioni e su cui l’organizzazione punta richiedendo misure di intervento immediate. Gli eventi che si sono susseguiti nel 2015 hanno messo in evidenza la portata della crisi dei diritti umani in atto in molti paesi facenti parte le macroaree considerate. Drammatici sono i bilanci che quantificano la gravità di abusi e violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme dei diritti umani commessi in contesti caratterizzati da continui conflitti che sono stati la causa di innumerevoli di morti e feriti tra civili e flussi di persone sfollate con la forza.

Africa Subsahariana

In Africa Subsahariana i continui conflitti armati in corso nella Repubblica Centrafricana, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, in Nigeria, in Sud Sudan e Sudan stanno favorendo il proliferarsi di crimini di diritto internazionale commessi sia dalle forze governative sia dai gruppi armati. Continui sono gli episodi di violenza di genere e sessuale, di discriminazione ed emarginazione e di impunità per i crimini di diritto internazionale. In Sudan, Sud Sudan, Swaziland, Congo, Namibia continuano a destare preoccupazione gli episodi di violenza di genere. Particolarmente difficile è la situazione per le donne residenti nella zona di Sierra Leone dove le vittime di violenza sessuale e domestica, a causa di ostacoli burocratici ed eccessivi costi hanno avuto limitazioni nell’accesso ai servizi di assistenza medica, all’assistenza legale, ai servizi riabilitativi e alle case rifugio. Non molto differente è lo scenario del Burkina Faso in cui l’impunità è rimasta la norma per tutti coloro che violano i diritti delle donne. Amnesty International «ha raccolto la testimonianza di decine di donne e ragazze che hanno raccontato di essere state vittime di matrimoni forzati e precoci, compresa quella di una ragazza di 13 anni che aveva camminato per più di 160 km per sfuggire a un matrimonio combinato da suo padre, il quale voleva farla sposare a un uomo di 70 anni che aveva già cinque mogli»[2]. Ma a destare preoccupazioni non sono solo i crimini contro le donne, ma anche il notevole tasso di arresti, violenze e persecuzioni ingiustificate nei confronti delle persone LGBTI. Numerosi sono i casi di abusi, discriminazione, vessazione, intimidazione e violenza in Camerun, Guinea, Nigeria, Kenya, Malawi, Sudafrica, Senegal, ecc. Purtroppo in questi paesi vige ancora il mantenimento del reato di attività sessuale tra persone dello stesso sesso, ciò contribuisce alla diffusione di vessazioni e ricatti basati sulla sessualità percepita. In Gambia, ad esempio, gli uomini sospettati di essere gay vengono processati per “attività sessuale contro natura” e con l’introduzione nell’ordinamento del Gambia dell’ergastolo per il reato di “omo­sessualità aggravata”, molte persone LGBTI hanno abbandonato il paese. Attacchi ancor più feroci si sono verificati ai danni di bambini, coloro che dovrebbero rappresentare le speranze ed il futuro del mondo, sono soggetti a brutali mutilazioni e smembramenti per essere venduti come feticci da utilizzare nella stregoneria. I casi di simili orrori si sono registrati nelle zone del Malawi e Tanzania dove se sei un bimbo affetto da albinismo non puoi giocare con altri bambini, la tua sorte è decisa da qualcun altro. I governi in questione hanno fatto ben poco per estirpare il marcio dalla radice; non hanno manifestato il proprio dissenso in maniera decisiva, né provveduto nell’adottare misure di tutela adeguate. In Togo nonostante i recenti sviluppi legislativi successivi all’adozione di un nuovo codice penale, è possibile constatare che «se da un lato questo conteneva una serie di sviluppi positivi in materia di diritti umani, compresa l’introduzione del reato di tortura, in linea con gli standard interna­zionali, alcune disposizioni indebolivano le libertà d’espressione e di riunione. Il documento conservava alcune disposizioni omofobe che consideravano reato i rapporti sessuali consenzienti tra adulti dello stesso sesso»[3].

Americhe

Nella regione delle Americhe: povertà, esclusione, disuguaglianza e discriminazione continuano a colpire inesorabilmente. Le tematiche relative alla crescente violenza sulle donne e crimini ai danni delle persone LGBTI continuano a rappresentare alcune tra le principali sfide per i diritti umani in tutta la regione. Molti stati dell’area in questione hanno deliberatamente continuato a non inserire tra i punti prioritari delle loro agende politiche la protezione di donne e ragazze da stupri, minacce e omicidi. Elevati sono i livelli di violenze di genere segnalati in Bolivia, Brasile, Canada, Colombia, Giamaica, Guatemala, Messico, solo per citarne alcuni. La violazione dei diritti sessuali e riproduttivi ha causato molte ripercussioni sulla salute di donne e ragazze. Al termine dell’anno 2015 erano sette i paesi (Haiti, Honduras, Cile, Repubblica Domenicana, El Salvador, Suriname, Nicaragua) della regione che vietavano tassativamente la possibilità di abortire e nessuno si era ancora munito di procedure atte a proteggere legalmente la vita delle donne. In Argentina «il ministero della Salute ha pubblicato un nuovo protocollo sull’implementazione dell’aborto legale in linea con una sentenza della Corte suprema del 2012. A fine anno, il documento non aveva ancora ricevuto l’approvazione ministeriale. In oltre la metà delle giurisdizioni continuavano a mancare i protocolli ospedalieri completi, per garantire l’accesso all’aborto legale nel caso in cui la gravidanza fosse la conse­guenza di uno stupro o se la vita o la salute della donna o ragazza fossero a rischio»[4]. Sul fronte dei diritti per le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, nonostante si siano registrati alcuni progressi in merito all’introduzione, in alcuni paesi, di legislazioni che vietavano discriminazioni per motivi legati all’identità di genere e all’orientamento sessuale, purtroppo violenze e persecuzioni non hanno cessato di esistere. In Giamaica i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso continuano ad essere reato e «il Forum giamaicano delle persone lesbiche, di tutti gli orientamenti sessuali e gay (J-Flag) ha ricevuto 47 denunce di violazioni dei diritti umani contro persone Lgbti. È rimasta motivo di preoccupazione la situazione dei giovani Lgbti rimasti senza tetto e sfollati, dopo essere stati cacciati di casa a causa del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere, i quali continuavano a vivere in canali di scolo e all’interno di edifici abbandonati»[5]. In Argentina molte donne transgender sono state vittime di brutali omicidi irrisolti e molte sono le segnalazioni di crimini di odio ai danni delle persone LGBTI.

Medio Oriente e Africa del Nord

È stato un anno catastrofico per milioni di persone del Medio Oriente e dell’Africa del Nord dove i conflitti armati in corso in Iraq, Yemen, Libia e Siria hanno costretto la popolazione in ginocchio. Durante l’anno, i gruppi armati si sono resi responsabili di una miriade di attacchi e attentati nei paesi della regione e non solo. Conflitti armati, pena di morte, torture, discriminazioni, sgomberi forzati, impunità e non accertamento delle responsabilità, diritti di donne e ragazze violati, tutto questo ha rappresentato l’anno di sangue di molti paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord. Secondo le notizie provenienti dal territorio, molte zone della Siria e del nord dell’Iraq sono state sotto il controllo di un gruppo armato autoproclamatosi Stato islamico – Is. Quest’ultimo ha commesso innumerevoli crimini di guerra e crimini contro l’umanità, propagandando attraverso internet video cruenti di abusi a scopo di reclutamento. Molte donne e ragazze yazide sono state catturate dal gruppo armato che le ha costrette a schiavitù sessuale, stupri, matrimoni forzati, ecc. In Qatar il governo ha fallito nel tentativo di tutelare i lavoratori migranti con riforme legislative specifiche. Infatti molti lavoratori si sono visti esposti a condizioni di vita e di lavoro insicure. La categoria maggiormente colpita è stata quella dei lavoratori domestici formata prevalentemente da donne che sono state protagoniste di ogni forma di abuso: aggressioni fisiche, orari di lavoro e salari inadeguati, lavoro forzato ecc.

In Giordania «le donne hanno subìto discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza, compresi i cosiddetti “delitti d’onore”. La legge sulla cittadinanza ha continuato a negare a quasi 89.000 donne giordane sposate con cittadini stranieri il diritto di trasmettere la loro nazionalità al coniuge e ai figli, privandoli in tal modo dell’accesso ai servizi forniti dallo stato»[6].

In Iraq l’Is ha ucciso decine di uomini solo perché percepiti omosessuali, facendoli precipitare nel vuoto dalla cima di edifici.

In Egitto molte persone sono state processate e arrestate con l’accusa di “indecenza” ai sensi della Legge 10 del 1961, a causa del loro reale o percepito orientamento sessuale o per la loro identità di genere. Il 12 gennaio 2015 sono stati prosciolti dall’accusa di “indecenza” i 26 uomini che erano stati arrestati, a dicembre 2014, in una sauna pubblica al Cairo. Il bilancio a fine anno evidenzia che nell’intera regione le tanto decantate riforme politiche, sociali, economiche e di tutela per i diritti umani, non  sono state messe in atto a causa dell’incidenza dei conflitti armati e di agenti repressivi stanziati sui territori. Purtroppo la strada del cambiamento per la regione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord è ancora irta e impervia da poterla percorrere senza impedimenti; sono molte le barriere che si interpongono tra gli individui ed il loro diritto di essere liberi.

Asia e Pacifico

In molte aree dell’Asia e Pacifico, il distacco tra i governi e i popoli si è fatto evidente. Le persone, soprattutto le nuove generazioni hanno fatto sentire la propria voce per porre fine alle continue violazioni dei diritti umani. Una delle problematiche maggiori che affligge quest’area è l’incapacità degli stati di garantire l’accertamento delle responsabilità per tutti coloro che si sono macchiati di torture e maltrattamenti. In alcune aree della regione il tasso di violenze, abusi dei diritti sessuali e riproduttivi si è diffuso a macchia d’olio. Ad esempio, in Nepal, le leggi sullo stupro sono rimaste inadeguate e la discriminazione basata sul genere ha limitato la capacità di donne e ragazze di avere il controllo sulla loro sessualità e di fare scelte relative alla riproduzione. Quest’ultime sono spesso soggette a violenze domestiche, non possono sottrarsi a matrimoni precoci e hanno difficoltà nell’usufruire di un’adeguata assistenza sanitaria. L’insieme di questi molteplici fattori rende le donne vulnerabili e ad alto rischio di sviluppare, in età molto giovane, il prolasso uterino. Restano molto diffusi, invece, nella zona di Papua Nuova Guinea episodi di violenza, infatti, «sono continuate le segnalazioni di casi di donne e minori sottoposti a violenza, e a volte uccisi, in seguito ad accuse di stregoneria. A maggio, una donna è stata uccisa e fatta a pezzi da un gruppo di uomini, dopo essere stata accusata di stregoneria»[7].

In India continuano le discriminazioni basate sulle rigide pratiche derivanti dai sistemi di caste e non mancano episodi di violenze sessuali da parte delle caste dominanti ai danni delle donne e ragazze dalit e adivasi. L’omosessualità, in molti paesi, è rimasta un reato e molte persone LGBTI ne hanno subito le conseguenze. È interessante notare che nonostante la maggior parte dei paesi adottino prassi discriminatorie nei confronti delle persone LGBT, «ad aprile, il distretto Shibuya di Tokyo è stato il primo municipio giapponese ad approvare un’ordinanza che equiparava matrimonio e unioni civili tra persone dello stesso sesso. Le coppie omosessuali registrate potevano ottenere certificati non vincolanti giuridicamente, il diritto a visitare il partner in ospedale e la possibilità di sottoscrivere congiuntamente contratti di locazione»[8].

Europa e Asia Centrale

L’area corrispondente all’Europa e all’Asia ha visto milioni di persone vittime delle molteplici facce e forme che può assumere la discriminazione. In paesi come la Bielorussia, Georgia, Lituania, Macedonia, Moldova, Russia, Serbia e Ucraina alle persone LGBTI viene negato il diritto alla libertà di espressione, riunione e manifestazione in pubblico. Nel 17 maggio del 2015, in occasione della giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia in Georgia e Armenia, solo per citarne alcune, le manifestazioni sono state celebrate in luoghi appartati e poco esposti. In Georgia non sono mancati episodi di intolleranza e i crimini di odio si sono abbattuti con ferocia su persone LGBTI, infatti « Il 7 agosto, il tribunale cittadino di Tbilisi ha condannato a quattro anni di carcere per incendio doloso e percosse un uomo che aveva aggredito fisicamente una donna transgender e aveva dato fuoco all’appartamento di un’altra transgender che aveva precedentemente ucciso. Tuttavia, il tribunale ha stabilito che l’uccisione era stata un atto di legittima difesa e lo ha prosciolto da tale imputazione»[9]. La situazione in Russia non si differenzia di molto, infatti, gli attivisti LGBTI hanno continuato a operare in un ambiente estremamente ostile, privati del loro diritto di potersi riunire pacificamente. Nel mese di maggio, un attivista LGBTI Nikolaj Alekseev «ha cercato di tenere una marcia del Pride non autorizzata a Mosca. Il tentativo ha provocato scontri con i contromanifestanti e la detenzione per 10 giorni di tre attivisti Lgbti, tra cui lo stesso Nikolaj Alekseev»[10]. In Ucraina i partecipanti alla marcia del Pride LGBTI organizzata a Kiev sono stati aggrediti da decine di attivisti di destra che sfondando le linee della polizia hanno causato feriti tra i manifestanti e le forze dell’ordine. La situazione dei diritti delle donne nel Regno Unito è sintetizzata nel rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite. Quest’ultima dichiara che sebbene il governo nelle sue dichiarazioni avesse inserito come priorità nazionale la lotta alla violenza contro le donne, impegnandosi nel proporre varie strategie di azione, di fatto le iniziative erano state implementate solo in contesti isolati. Ciò evidenziava la discontinuità e incapacità del governo di riuscire a diffondere su tutto il territorio un approccio costante basato sui diritti umani.

In Albania «La polizia statale ha riferito di 1.696 casi di violenza familiare nei primi sei mesi dell’anno, che hanno dato luogo a 993 richieste di ordini di protezione. Su 406 richieste presentate ai tribunali della capitale Tirana tra gennaio e agosto, sono stati garantiti soltanto 118 ordini e 251 richiedenti hanno ritirato la domanda o non si sono presentate in tribunale a causa delle pressioni dei loro molestatori o familiari. A Tirana, tra gennaio e giugno, in 185 procedimenti giudiziari su 190, gli imputati sono stati condannati per violenza familiare; la maggior parte si era dichiarata colpevole»[11].

Non esce bene l’Italia dal Rapporto 2015-2016 di Amnesty International. Purtroppo in materia di diritti si riscontrano pochi progressi sia dal punto di vista legislativo che dell’elaborazione politica. Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia[12], sottolinea alcuni aspetti del contesto italiano che sono fonte di preoccupazioni. Negli ultimi anni il comportamento di molti esponenti politici e istituzionali, ha incoraggiato forme di intolleranza e odio nei confronti delle persone LGBTI che sono state soggette a violente aggressioni verbali e fisiche. Si sente la necessità di modificare le norme penali in vigore contro la discriminazione aggiungendo alle già presenti sanzioni e condanne  di gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali; in egual modo vanno introdotte forme stringenti nei confronti di discriminazioni per motivi riguardanti l’orientamento sessuale e l’identità di genere.

Per quanto riguarda la questione femminile, in Italia la violenza domestica non viene denunciata in oltre il 90% dei casi e negli ultimi anni il numero di femminicidi è rimasto costante, circa 100 donne vengono brutalmente assassinate ogni anno.

Amnesty International affinché le persone LGBTI possano godere degli stessi diritti e libertà di ogni altro cittadino si adopera costantemente per ribadire ai governi europei, e in generale di tutto il mondo, l’impegno contro ogni discriminazione riguardante l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Il quadro complessivo che emerge dal rapporto Amnesty International 2015 è inaccettabile a causa del disastroso bilancio delle vittime. Ci si chiede se il mondo in cui viviamo sia realmente per tutti o se questo sia ancora fortemente contraddistinto dal dualismo discriminato-discriminatore. In molti paesi gli individui non sono padroni di poter vivere la propria vita seguendo solo ed unicamente la propria voce. Una voce silenziata da chi ha il potere di decidere compiendo scelte e legiferando sulla vita altrui.  Molte voci sono state spezzate: civili, militanti, difensori dei diritti umani, sono stati messi a tacere per sempre. Ma un destino ancor più crudele si cela dietro la ferocia di tali accanimenti per coloro che non hanno avuto e non hanno la possibilità di potersi difendere. Molte donne del mondo sono vittime di abusi continui, zittite da mariti violenti e non hanno la facoltà di potersi appellare a leggi per rivendicare il loro diritto di essere e sentirsi libere. Libere dalle costrizioni familiari, libere dal contrarre matrimoni in giovane età, libere dal dover compiacere il proprio uomo con taciti consensi. Il 40% delle donne in età fertile vive in paesi in cui l’aborto è vietato, limitato o non accessibile. Circa 47.000 donne incinte muoiono ogni anno a causa di complicazioni da aborti non sicuri. In un anno, 215.000 morti legate alla gravidanza, potrebbero essere evitate se le donne potessero usare dei contraccettivi. Le relazioni tra persone dello stesso sesso sono illegali in 76 paesi di cui 36 appartengono all’area africana. Più di 14 milioni di ragazze adolescenti partorisce ogni anno principalmente a causa di rapporti sessuali forzati e gravidanze indesiderate. In 24 paesi europei viene richiesto alle persone transgender di essere sterilizzate prima di riconoscere legalmente il loro genere. In alcuni paesi si può essere messi a morte se ritenuti colpevoli di omosessualità.

Amnesty International in occasione della campagna “My Body My Rights” ha chiesto ai governi di: «porre fine all’uso discriminatorio del diritto penale per regolamentare la sessualità e la riproduzione e porre fine al controllo di terzi sulle decisioni individuali;  rimuovere gli ostacoli all’accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, all’educazione e all’informazione contrastando la discriminazione nelle leggi e nelle prassi; dare alle persone il potere di rivendicare e di praticare i propri diritti in modo che ciascuna di loro possa prendere decisioni sulla sessualità e riproduzione liberamente e in base a informazioni corrette e possa esercitare i diritti sessuali e riproduttivi libera da discriminazione, coercizione e violenza»[13].

 

 

 

[1]http://www.rapportoannuale.amnesty.it/2015-2016.

[2] http://www.rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Burkina%20Faso.pdf.

[3] http://www.rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Togo.pdf.

[4] http://www.rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Argentina.pdf

[5] http://www.rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Giamaica.pdf

[6] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Giordania.pdf

[7] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Papua%20Nuova%20Guinea.pdf

[8] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Giappone.pdf

[9] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Georgia.pdf

[10] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Russia.pdf

[11] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Albania.pdf

[12] http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/Relazione%20Rufini.pdf

[13] http://www.amnesty.it/flex/FixedPages/pdf/mybodymyrights.pdf