«Prima eri una brava ragazza!». Il coming-out di Maria Luisa

Con la storia di Maria Luisa inauguriamo un nuovo spazio sul sito dell'OsservatorioLGBT destinato a raccogliere le storie di vita, o parti di storie di vita, di persone LGBTQI, di donne, uomini, trans*. Analizzeremo periodicamente una biografia con un occhio di riguardo alle dimensioni di genere augurandoci di fornire materiali di spunto per ricerche ed indagini successive.

Iniziamo dalla storia di Maria Luisa, dell'esperienza che l'ha vista vittima di un violento attaccco omofobo tornato di recente alla ribalta per la conclusione del processo contro i suoi aggressori, e del suo rapporto con i genitori.

«Prima eri una brava ragazza!» «Mamma sono sempre una brava ragazza, non è che il mio orientamento sessuale cambia il mio modo di essere».

 

Il coming-out -  il dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale - determina sempre uno stravolgimento degli equilibri familiari, infatti, molte persone tendono a parlarne prima con gli amici che con i familiari, per paura di una reazione esasperata. Tanto è vero che non sono pochi i casi in cui figli sono stati mandati via dopo aver rivelato la propria omosessualità, oppure hanno dovuto affrontare il silenzio dei genitori, il sentirsi non accettati. Anche se, molto spesso, la paura di una reazione negativa da parte dei genitori è maggiore rispetto a come nella realtà vanno le cose.  Maria Luisa, timorosa di parlare con i propri genitori del suo orientamento sessuale, lo ha fatto in una situazione del tutto particolare. Si, perché il suo coming-out avviene in seguito ad un assurdo atto di violenza. Nel 2009, la protagonista di questa storia, viene pestata, offesa e picchiata in una nota piazza di Napoli da un gruppo di ragazzi omofobi. La motivazione? L’aver difeso un amico omosessuale. Questo grave episodio di violenza, del tutto gratuita, ha inevitabilmente delle conseguenze su di essa: deve affrontare un intervento all’occhio sinistro, in quanto la sua parete orbitale deve essere sostituita con una artificiale. Le conseguenze, purtroppo, non sono solo fisiche, dato che subire un’aggressione del genere, comporta delle conseguenze,  inevitabilmente, a livello psicologico.

Maria Luisa decide di parlare con i suoi genitori il giorno prima dell’intervento, non sapendo cosa potesse accadere in sala operatoria: avrebbe potuto perdere la vista. Il parlarne porta due reazioni differenti. La prima è quella inaspettata del padre, il quale non ha alcun problema sull’omosessualità della figlia, ma pensa solo alla sua felicità. La seconda, quella della madre, sicuramente più forte e che all’inizio sembra non accettare la cosa.

«Poi, successivamente, il coming-out non è fine a se stesso, non è che lo fai una volta e  ti sei lavata la coscienza come dire, infatti, successivamente, negli anni, nei mesi, ho ripreso il discorso varie volte. Mia madre che tentava di chiedere quando mi sposavo, perché non mi trovavo un bravo ragazzo e io rispondevo: “Mamma, io mi sposo. Ora non mi posso sposare perché in Italia non esiste il matrimonio tra persone dello stesso sesso, però mi sposo”. E poi fa: “Quando ce li mangiamo i confetti?” “Non ti preoccupare ce li mangiamo i confetti, solo che li facciamo rainbow, di tutti i colori”».

L’operazione che Maria Luisa ha dovuto affrontare all’ occhio sinistro, è andata a buon fine, ma nonostante ciò deve sottoporsi periodicamente a visite mediche. Inoltre, nel dicembre 2014, è stata emanata la sentenza per questa brutale aggressione: due dei tre aggressori di Asia sono stati condannati a 10 anni di carcere. «La sentenza (…) è stata per il movimento LGBT italiana una condanna storica, una sentenza storica, proprio per il fatto che sono stati dati tanti anni a queste persone. Spero che il governo legiferi sopra queste tematiche».

In seguito all’ aggressione, Maria Luisa, ha iniziato a prendere parte all’ Arcigay di Napoli - costituitosi anche parte civile nel processo -  e dopo solo due mesi è stata eletta vicepresidente, carica ricoperta per tre anni «(…) poi nacque in me la voglia di dover fare qualcosa per far si che quello che mi era accaduto non accadeva ad altri, o comunque di aiutare la comunità LGBT nel chiedere i propri diritti».

Questa storia ci offre una serie di spunti di riflessione. Per prima cosa c’è da riflettere sul coming-out. Questo non rappresenta un episodio isolato della vita di una persona, bisogna tener presente il percorso che una persona fa, che la porta a parlare della propria omosessualità, nella consapevolezza che, nella maggior parte dei casi, i suoi legami cambieranno. È bene riflettere anche su cosa induce dei ragazzi, in una piazza che  rappresenta il centro di aggregazione per i giovani napoletani, ad aggredire verbalmente e fisicamente delle persone omosessuali, senza essere aperti al dialogo. Il fatto che questi episodi di omofobia provengano proprio dai giovani, induce a pensare che quegli ideali di eteronormatività ed eterosessismo sono ancora troppo radicati nella nostra cultura e che il lavoro da fare, per superarli, debba partire proprio da loro. Inoltre, la condanna di due degli aggressori rappresenta una vittoria non solo per Maria Luisa, ma per tutta la comunità LGBT, dato che il problema risiede nella mancanza di normativa contro gli episodi di omo-transfobia, fenomeno ancora troppo diffuso in Italia.

Ultimo punto su cui porre l’attenzione è il ruolo svolto dall’ associazionismo. In un contesto in cui non vi è alcuna tutela per le persone LGBT, sia nel caso di crimini motivati dall’ odio, sia nel godimento dei diritti di cittadinanza, è dalle associazioni di settore, diffuse su tutto il territorio, che provengono la maggior parte della azioni per il superamento di questa situazione di stallo. Luogo in cui trovarsi, riconoscersi, rifugiarsi e condividere, ciò che l’associazionismo crea è proprio il concetto di gruppo, un network coeso, in cui insieme si può lottare  per sradicare quel forte pregiudizio che pervade la nostra società.